venerdì 25 settembre 2009

I miei libri dedicati a Napoli di Vittorio Paliotti




I miei libri dedicati a Napoli
MA TUTTO INIZIO’ A MILANO

di Vittorio Paliotti

Volevo andare in una città in cui poter trovare quel tipo di lavoro che mi piaceva e, soprattutto, poter lavorare tenendo lontana la suscettibilità degli altri, amici o nemici che fossero.
Dopo che a Napoli mi fu sbattuta l’ultima porta in faccia, scelsi come meta Milano ove già avevo dei piccoli agganci, nel senso che alcuni rotocalchi ospitavano miei articoli spediti alla disperata e che, senza alcun mio mercanteggiare, mi venivano compensati con regolarità e con incredibile generosità. Avevo vent’anni e credevo molto in me stesso e nel mio futuro.

Non mi pesò affatto la notte trascorsa in uno scompartimento di terza classe e appena fui arrivato a Milano un colpo di fulmine mi fece innamorare della tettoia liberty, a forma di galleria, che sovrastava la stazione. Avevo nel portafogli centomila lire vinte con un pilatesco ex aequo a un premio giornalistico, e trascinavo due valigie, l’una piena di maglie maglioni calze camicie, e l’altra colma di libri. Tutti libri ambientati a Napoli, di Giuseppe Marotta in primis, e poi di Carlo Bernari, di Domenico Rea, di Anna Maria Ortese, di Gino Doria.
Certo: avevo deciso di andarmene a Milano, anche per sempre se indispensabile, ma rimanevo fermamente legato a Napoli.

Posai le valigie in un piccolo albergo di piazza Duca d’Aosta, feci una doccia e montai subito su un tram diretto a piazza Carlo Erba. In un palazzo gigantesco, aveva lì la sua sede, di fronte alla fabbrica di biciclette “Bianchi”, la casa editrice Rizzoli. Da qualche tempo, avevo preso a collaborare a uno dei settimanali della Rizzioli, il “Candido” diretto da Giovannino Guareschi. I miei articoli, tutti di ambiente napoletano, erano dedicati, principalmente, alle vecchie canzoni di Piedigrotta.

Giù, al custode, dissi che desideravo parlare col dottor Guareschi.
“Il signor Guareschi è al piano secondo” mi disse l’uomo, indicandomi l’ascensore.
Ancora non si era affacciato il terrorismo, in quegli anni, ancora i dirigenti d’azienda non si sentivano padreterni e dunque si poteva accedere negli uffici senza esibire documenti, senza dimostrare di essere attesi, senza esser costretti a farsi applicare un cartellino con la “V” (visitatore) sul bavero del paltò.
Salii al secondo piano, percorsi un corridoio e mi rivolsi a un usciere che, fumando, se ne stava seduto dietro un minuscolo tavolino.
“Mi vuole annunciare al direttore del Candido?”, chiesi. L’altro diede uno sguardo all’orologio e disse:
“Eh, no. A quest’ora il signor Guareschi è alla macchina da scrivere”. Dovette accorgersi della mia delusione sicché aggiunse prontamente, come se avesse avuto un improvvisa idea:
“Perché non prova col signor Minardi? E’ pur sempre il redattore capo: in fondo a destra”.

La redazione di “Candido”, tre stanze, era accanto a quelle dell’”Oggi”, dell’”Europeo”, di “Annabella”, di “Novella”, di “Bella”, di “Bolero film” e di “Domenica quiz”. Il corridoio, mi accorsi, era a dir poco labirintico, sicché in esso mi smarrii quasi. Vedevo uomini e donne talmente frettolosi da togliermi il coraggio di fermarli; e quando finalmente scorsi un tipo alto e magro che camminava alla napoletana, lo bloccai e, quasi balbettando, gli chiesi di mostrarmi la porta dell’ufficio del signor Minardi. “Venga con me” disse quello e mi condusse, sorridendo, dinanzi alla porta giusta.
“Napoletano?” mi domandò con allegria. Confermai e lui, come per incoraggiarmi:
“Be’, qui non hanno pregiudizi. Io, per esempio, sono russo”.
Seppi dopo che la persona che mi aveva fatto da guida nei corridoi della Rizzoli era realmente di origini russe: si chiamava, o meglio si firmava, Giorgio Scerbanenco ed era destinato alla celebrità come autore di romanzi gialli.

Girai, ansioso, la maniglia della porta del “Candido”.
“Buongiorno” dissi. “Posso?” e pronunciai il mio nome.
Alessandro Minardi era un uomo di poco più di quarant’anni, molto baffuto. Stava in piedi, davanti a un alto tavolo da disegno, per il motivo semplicissimo, seppi dopo, che dovendo anche progettare il menabò, gli toccava lavorare di squadra di riga e di matita. A due passi dal tavolo di Minardi sedeva un altro signore, calvo e baffuto, tutto intento a battere sui tasti di una Olivetti. E mentre Minardi si mosse verso di me sorridendomi e tendendo la mano, l’altro, senza quasi guardarmi disse:
“Buondì”.

“Parliamo a bassa voce” furono le prime parole che mi disse Alessandro Minardi. E spiegò:
“Carlo Manzoni sta scrivendo la nuova puntata delle avventure del Signor Veneranda”.
Il redattore capo mi diede da sedere, ma lui rimaneva ostinatamente in piedi.
“Come mai a Milano?” mi domandò. Gli risposi che ero venuto a Milano per rimanervi e che ero deciso a trovarmi un lavoro in qualche giornale.
“Lei è molto bravo a scrivere articoli, ma chissà se saprà resistere in una redazione”, commentò Minardi.

Ritornò verso il suo tavolo, tracciò delle linee sul foglio lucido che aveva davanti, poi disse:
“Scusi un attimo. Devo dire una cosa a Guareschi”.
Uscì dalla stanza ammiccando. Tornò dopo dieci minuti. “Senta”, mi disse, “proprio ieri ci è venuto meno un redattore. Teodoro Celli è passato al settimanale ‘Oggi’ dove farà anche la critica musicale. Guareschi ha detto che lei andrebbe bene. Se vuole, può rimanere e incominciare anche subito”.

Mi sembrava di star sognando. Carlo Manzoni interruppe il suo lavoro e mi fece un occhiolino di simpatia. Poi mi tese un foglio: mi aveva fatto la caricatura senza che nemmeno io me ne fossi accorto.
“Venga, venga con me”, diceva intanto Minardi.
Mi precedette in un’altra stanza e mi presentò il redattore Giovanni Cavallotti e la segretaria di redazione Rosanna Manca di Villahermosa.
“Lui”, disse Minardi indicandomi,”farà il lavoro che faceva il Celli. Cavallotti, gli spieghi lei in cosa consiste”. Minardi sparì.
Subito dopo, però, la porta si riaprì e fece capolino un uomo di mezza età, contraddistinto da un paio di enormi baffi. Riconobbi subito, in lui, il padre di Don Camillo: era, allora, uno degli scrittori più famosi d’Italia.
“Ho piacere di averla in redazione”, mi disse Giovannino Guareschi. “Sa, mia moglie è un’appassionata lettrice dei suoi articoli sulla canzone napoletana. Se può, non smetta di scriverne”.

Appena il direttore di “Candido” ebbe rinchiusa la porta guardai l’orologio. Non era ancora mezzogiorno, il treno proveniente da Napoli era entrato nella stazione di Milano alle sette e dieci e io sedevo alla scrivania di un grande giornale.

Poi vogliono sapere perché amo tanto Milano. Poi storcono il naso perché sul più recente dei miei trenta libri, quasi tutti di ambiente napoletano, ho fatto stampare una frase blasfema. Sì, blasfema: “Dedico questo libro a una città: Milano. Con affetto filiale”.

Vittorio Paliotti

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